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  • Volto come pietra

    Volto come pietra

    Tecnica: olio su tela
    Dimensioni: 35x50cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • L'urlo dell'arlecchino

    L’urlo dell’arlecchino

    Tecnica: olio su tavola
    Dimensioni: 12x18cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Cariatide

    Cariatide

    Tecnica: olio su tavola
    Dimensioni: 12x18cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Riflessioni

    Riflessioni

    Tecnica: olio su tela
    Dimensioni: 80x120cm
    Venduto
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Cariatide veneziana

    Cariatide veneziana

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 80x100cm
    Venduto
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Giullare a pois

    Giullare a pois

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 80x100cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Città spezzata

    Città spezzata

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 80x120cm
    Venduto
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Contatto

    Contatto

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 60x90cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Rialto triste

    Rialto triste

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 70x100cm
    Venduto
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • La passione di un giullare

    La passione di un giullare

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 60x70cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Jokerman  (omaggio a Bob Dylan)

    Jokerman (omaggio a Bob Dylan)

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 70x100cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Rialto

    Rialto

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 60x90cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Sotto un ponte

    Sotto un ponte

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 35x40cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Venezia, luogo dell’anima

    Critica di Gabriella Niero

    La stesura cromatica segue un segno dinamico e con incisività trasforma i profili delle architetture Veneziane in tante facciate monumentali. Il ritmo del segno è spasmodico, fa fremere le vertiginose costruzioni verticali dalle tante finestre oscure, definisce le tramanti sagome murarie che testimoniano un lontano e glorioso passato.

    Le pareti scabre ondeggiano nel cielo. Oltre appare il vuoto che assume connotati inquietanti. Silente osservatore della originale dimensione urbana è un giullare, la grande maschera beffarda dell’espressione grottesca che segue Venezia nel suo inesorabile dissolversi. La pittura di Sergio Boldrin si definisce immediatamente proprio in quel trascolorare. Si rimane attoniti ed incuriositi davanti a una così personale interpretazione della città, la sua città. Nessuna retorica, nessun compiacimento estetico. Solo la verità di un luogo magico che nel tempo sta perdendo i riferimenti della storia. In questo percorso verso il declino l’arte di Boldrin assume l’entità di una sincera “presa di coscienza” tradotta come stato dell’anima, un riflesso poetico che diventa lettura di un malessere ambientale.

    Le architetture urbane si compenetrano tra loro e si inseriscono vorticosamente sulla superficie creando gigantesche scenografie monumentali. Non si riconoscono più stili o influssi orientali, ma soltanto misteriosi costruzioni oniriche che rispondono a una prospettiva ribaltata nella struttura interna. E’ come un grande teatro di cartapesta che si pone con immanenza sul suolo fragile della laguna e poi segue una lenta trascendenza verso l’alto: gli antichi palazzi come alberi si rivolgono al cielo e per l’ultima volta tendono le radici verso l’instabile piano della propria origine. La pittura di Boldrin esprime quindi una realtà che emerge dall’osservazione e dove la ragione si coniuga all’emozione. Ricerca dunque complessa, spesso travalicante i confini del sogno (forse dell’incubo?) ma mai distaccata dalla realtà più vera. Oggi Venezia per chi la ama e la conosce è una città malinconica e abbandonata dalla propria gente, in bilico tra l’esistenza apparente e l’anima che l’ha resa magnifica nel tempo. La rovina, il degrado, l’indifferenza dei più rappresentano per Boldrin i dati di una città ormai priva di vita. E purtroppo non si allontana solo la bellezza, ma anche l’identità. Negli occhi consapevoli del giullare, nella maschera grottesca e malinconica si nasconde il sentimento consapevole di un veneziano. La pittura diventa ricerca intimistica palese, un espressionismo non solo formale ma pienamente assimilato e rielaborato secondo parametri di assoluto approfondimento sentimentale, in certi dipinti viscerale. Ecco che appare nel segno e nella carica visiva dei soggetti un primitivismo forte, quasi scultoreo nella levigatezza delle campiture - come si vede nel malinconico buffone bianco - dallo stile severo e così attuale.

    L’autore esplora la realtà Venezia in un’accezione sensitiva, può essere il racconto di una suggestione visiva o un’immagine estemporanea, la risoluzione pittorica traduce simbolicamente i riflessi di un dato conosciuto seguendo lo sviluppo mutevole del soggetto, il perpetuo divenire di un riflesso decadente sulla laguna. Le raffinate armonie decorative scompaiono nella pennellata densa, i colori delle terre coperti dal blu simulano un’ architettura screziata dal tempo, le suggestioni umbratili di un interno sono vissute con un senso di trasognata malinconia. La definizione lirica di Boldrin trova in questo modo una rispondenza attraverso la strutturazione per livelli dell’immagine con il colore che definisce i vari momenti, si dilata o s’addensa nei vari piani, segue i riflessi di un cristallo atmosferico, mostra la bellezza fuggente e precaria delle cose. Forse è per questo che le pennellate risaltano come delle lacerazioni, rapprendono le venature degli antichi marmi in profonde ferite.

    Ogni segno e colore per Sergio Boldrin incidono nella volontà di conoscere la dimensione attuale dell’oggetto quasi per impadronirsi del suo evolversi interiore. La pittura rivela la vera identità dell’esistenza: nel ritmo bilanciato dei tocchi gestuali l’autore va alla ricerca di quell’attimo sospeso che traspare come anima autentica della città. Intanto il giullare osserva, permettendo una comunicazione diretta con l’autore e con la realtà: l’arcana presenza della maschera tragica ci avvolge in una commozione infinita.

    Giugno 2012, Gabriella Niero

  • Canal Grande

    Canal Grande

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 60x90cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Il periodo blue

    Il tentativo per l’artista di appropriarsi del colore blu, di rimanere sospeso ma in equilibrio da tutte le emozioni di questo momento particolare, usando l’oltremare, il cobalto; di entrare come un misterioso segno pittorico in una tela – giornata Bianca e di conseguenza allontanandosi dalla sua consueta Tavolozza severa, il palcoscenico rimane lo stesso, non un atto di resa ma un tentativo di esprimere silenzio, tranquillità misteriosa, rimanendo come in un sogno sospeso, usando il blu come un equilibrista usa la sua asta sopra la fune.

  • Canale danzante

    Canale danzante

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 80x100cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Il periodo blue

    Il tentativo per l’artista di appropriarsi del colore blu, di rimanere sospeso ma in equilibrio da tutte le emozioni di questo momento particolare, usando l’oltremare, il cobalto; di entrare come un misterioso segno pittorico in una tela – giornata Bianca e di conseguenza allontanandosi dalla sua consueta Tavolozza severa, il palcoscenico rimane lo stesso, non un atto di resa ma un tentativo di esprimere silenzio, tranquillità misteriosa, rimanendo come in un sogno sospeso, usando il blu come un equilibrista usa la sua asta sopra la fune.

  • Illuminarsi d’arte (Guggenheim)

    Illuminarsi d’arte (Guggenheim)

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 70x100cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Il periodo blue

    Il tentativo per l’artista di appropriarsi del colore blu, di rimanere sospeso ma in equilibrio da tutte le emozioni di questo momento particolare, usando l’oltremare, il cobalto; di entrare come un misterioso segno pittorico in una tela – giornata Bianca e di conseguenza allontanandosi dalla sua consueta Tavolozza severa, il palcoscenico rimane lo stesso, non un atto di resa ma un tentativo di esprimere silenzio, tranquillità misteriosa, rimanendo come in un sogno sospeso, usando il blu come un equilibrista usa la sua asta sopra la fune.

  • Mistero notturno

    Mistero notturno

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 60x90cm
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Il periodo blue

    Il tentativo per l’artista di appropriarsi del colore blu, di rimanere sospeso ma in equilibrio da tutte le emozioni di questo momento particolare, usando l’oltremare, il cobalto; di entrare come un misterioso segno pittorico in una tela – giornata Bianca e di conseguenza allontanandosi dalla sua consueta Tavolozza severa, il palcoscenico rimane lo stesso, non un atto di resa ma un tentativo di esprimere silenzio, tranquillità misteriosa, rimanendo come in un sogno sospeso, usando il blu come un equilibrista usa la sua asta sopra la fune.

  • Untitled

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 80x100cm
    Venduto
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    Il periodo blue

    Il tentativo per l’artista di appropriarsi del colore blu, di rimanere sospeso ma in equilibrio da tutte le emozioni di questo momento particolare, usando l’oltremare, il cobalto; di entrare come un misterioso segno pittorico in una tela – giornata Bianca e di conseguenza allontanandosi dalla sua consueta Tavolozza severa, il palcoscenico rimane lo stesso, non un atto di resa ma un tentativo di esprimere silenzio, tranquillità misteriosa, rimanendo come in un sogno sospeso, usando il blu come un equilibrista usa la sua asta sopra la fune.

  • La prima maschera

    Tecnica: Tecnica mista su tela
    Dimensioni: 80x100cm
    2021
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    La prima maschera

    L’uomo e la sua maschera, inscindibili e inseparabili, sono i protagonisti del nuovo ciclo pittorico dell’artista veneziano Sergio Boldrin.

    Quella proposta dall’artista è una riflessione pittorica di grande pathos che, come uno “schiaffo”, conduce ai primordi dell’essere, volgendosi ad analizzare la sua natura più intrinseca.

    La ricerca è volta a porre l’accento sull’uomo più che sulla maschera, lasciando a quest’ultima però l’importante compito di svelare le caratteristiche più recondite dell’uomo, portando alla luce la sua vera identità.

    Boldrin, pur attingendo dal suo bagaglio di conoscenze come maestro mascarer, per lui costante motivo di riflessione, come pittore è invece riuscito ad evadere da quello stuolo di maschere con cui si trova tutti i giorni a spartire le giornate, riuscendo ad indagare il significato di maschera al livello di quell’io più profondo con cui ogni essere umano fin dai tempi dei tempi si è confrontato.

    In questa selezione di opere pittoriche la maschera, infatti, non è intesa nei termini teatrali della commedia dell’arte o in quelli carnevaleschi, ma in modo intimo e spirituale, ed è vista soprattutto nella sua veste innata come volto primordiale: nel momento stesso in cui l’uomo nasce gli viene infatti donata una maschera e sarà questa ad accompagnarlo per il resto della vita.

    Proprio rifacendosi a questo concetto, Boldrin per realizzare le sue opere si è ispirato alle maschere africane. Già altri artisti in passato le avevano prese come punto di riferimento, in particolare vari esponenti di cubismo, fauvismo ed espressionismo nel periodo avanguardistico del XX secolo.

    La visione di Boldrin però è tutta nuova e, in un approccio concettuale ed artistico per nulla scontato, invita a voltarsi indietro fino ai primordi della fusione tra uomo e maschera che, eretti a simboli, connotano le caratteristiche di ciascun mortale. In particolare, per sottolineare la dualità di una componente psicologica, Boldrin si rifà alla “Maschera dello Zaire” di realizzazione anonima, conservata al Museo Reale dell’Africa centrale, a cui già Picasso, pur con intenti diversi tesi ad un’attenzione geometrica, si era ispirato per realizzare “Les Damoiselles D’Avignon”.

    Nelle opere ciascun essere alla cui nascita è affidata la prima maschera è rappresentato da Boldrin come una piccola figura bianca in forme embrionali ed evanescenti, simbolo di un’anima pura e autentica all’inizio di una nuova vita. Tale figura sorregge la grande maschera pronta per indossarla, con gestualità sempre diverse, dai caratteri leggiadri e svolazzanti, mai completamente definiti.

    Diversi sono infatti i “nativi” rappresentati, ognuno destinato ed essere differente dagli altri nei caratteri fisiognomici, psicologici, caratteriali e comportamentali.

    Vi sono maschere in cui prevale un atteggiamento demoniaco, percepibile dai pigmenti caldi del rosso scarlatto e sanguigno, che con occhi infuocati sottolineano un animo tormentato e tormentatore. Altre, dai toni più cupi, malinconici e misteriosi, richiamano segni di sofferenza, lotta e guerra. Ci sono alcune poi in cui prevale l’idea di un animo più sereno dedito alla riflessione e all’analisi, mentre altre hanno un’inclinazione più sognante e riportano in un mondo danzante e filosofico. E ancora, maschere con i colori della terra, che appaiono più goliardiche, richiamano situazioni pastorali e bucoliche.

    Sono opere caratterizzate da una forte componente figurativa che va sapientemente a mescolarsi con la parte più astratta, che richiama il sogno e l’immaginazione. Lo spazio a volte diviene quasi teatrale, mentre in altre lo sfondo diventa più astratto e connotato psicologicamente. Se in alcune opere la maschera compare in modo più geometrico e marcato, in altre questa si fonde con l’essere a tal punto da prendere tratti più umani, come se fosse una seconda pelle.

    Infine, l’ultima opera, su sfondo violaceo quasi nero, riprende la prima maschera del percorso che, ridipinta di bianco, appare però quasi come un fantasma.

    L’opera rappresenta la fine della vita, il momento fin dove l’uomo porterà la sua maschera e in cui entrambi si annulleranno.

    Una riflessione che viene narrata in opere connotate da istintività gestuale e sapiente calibro dei toni, tra contrasti che vanno a rimarcare sensazioni e stati d’animo, in colori intensi così come è la vita.

    Francesca Catalano - Critica e curatrice d’arte

  • Nativo 2

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 70x100cm
    2021
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    La prima maschera

    L’uomo e la sua maschera, inscindibili e inseparabili, sono i protagonisti del nuovo ciclo pittorico dell’artista veneziano Sergio Boldrin.

    Quella proposta dall’artista è una riflessione pittorica di grande pathos che, come uno “schiaffo”, conduce ai primordi dell’essere, volgendosi ad analizzare la sua natura più intrinseca.

    La ricerca è volta a porre l’accento sull’uomo più che sulla maschera, lasciando a quest’ultima però l’importante compito di svelare le caratteristiche più recondite dell’uomo, portando alla luce la sua vera identità.

    Boldrin, pur attingendo dal suo bagaglio di conoscenze come maestro mascarer, per lui costante motivo di riflessione, come pittore è invece riuscito ad evadere da quello stuolo di maschere con cui si trova tutti i giorni a spartire le giornate, riuscendo ad indagare il significato di maschera al livello di quell’io più profondo con cui ogni essere umano fin dai tempi dei tempi si è confrontato.

    In questa selezione di opere pittoriche la maschera, infatti, non è intesa nei termini teatrali della commedia dell’arte o in quelli carnevaleschi, ma in modo intimo e spirituale, ed è vista soprattutto nella sua veste innata come volto primordiale: nel momento stesso in cui l’uomo nasce gli viene infatti donata una maschera e sarà questa ad accompagnarlo per il resto della vita.

    Proprio rifacendosi a questo concetto, Boldrin per realizzare le sue opere si è ispirato alle maschere africane. Già altri artisti in passato le avevano prese come punto di riferimento, in particolare vari esponenti di cubismo, fauvismo ed espressionismo nel periodo avanguardistico del XX secolo.

    La visione di Boldrin però è tutta nuova e, in un approccio concettuale ed artistico per nulla scontato, invita a voltarsi indietro fino ai primordi della fusione tra uomo e maschera che, eretti a simboli, connotano le caratteristiche di ciascun mortale. In particolare, per sottolineare la dualità di una componente psicologica, Boldrin si rifà alla “Maschera dello Zaire” di realizzazione anonima, conservata al Museo Reale dell’Africa centrale, a cui già Picasso, pur con intenti diversi tesi ad un’attenzione geometrica, si era ispirato per realizzare “Les Damoiselles D’Avignon”.

    Nelle opere ciascun essere alla cui nascita è affidata la prima maschera è rappresentato da Boldrin come una piccola figura bianca in forme embrionali ed evanescenti, simbolo di un’anima pura e autentica all’inizio di una nuova vita. Tale figura sorregge la grande maschera pronta per indossarla, con gestualità sempre diverse, dai caratteri leggiadri e svolazzanti, mai completamente definiti.

    Diversi sono infatti i “nativi” rappresentati, ognuno destinato ed essere differente dagli altri nei caratteri fisiognomici, psicologici, caratteriali e comportamentali.

    Vi sono maschere in cui prevale un atteggiamento demoniaco, percepibile dai pigmenti caldi del rosso scarlatto e sanguigno, che con occhi infuocati sottolineano un animo tormentato e tormentatore. Altre, dai toni più cupi, malinconici e misteriosi, richiamano segni di sofferenza, lotta e guerra. Ci sono alcune poi in cui prevale l’idea di un animo più sereno dedito alla riflessione e all’analisi, mentre altre hanno un’inclinazione più sognante e riportano in un mondo danzante e filosofico. E ancora, maschere con i colori della terra, che appaiono più goliardiche, richiamano situazioni pastorali e bucoliche.

    Sono opere caratterizzate da una forte componente figurativa che va sapientemente a mescolarsi con la parte più astratta, che richiama il sogno e l’immaginazione. Lo spazio a volte diviene quasi teatrale, mentre in altre lo sfondo diventa più astratto e connotato psicologicamente. Se in alcune opere la maschera compare in modo più geometrico e marcato, in altre questa si fonde con l’essere a tal punto da prendere tratti più umani, come se fosse una seconda pelle.

    Infine, l’ultima opera, su sfondo violaceo quasi nero, riprende la prima maschera del percorso che, ridipinta di bianco, appare però quasi come un fantasma.

    L’opera rappresenta la fine della vita, il momento fin dove l’uomo porterà la sua maschera e in cui entrambi si annulleranno.

    Una riflessione che viene narrata in opere connotate da istintività gestuale e sapiente calibro dei toni, tra contrasti che vanno a rimarcare sensazioni e stati d’animo, in colori intensi così come è la vita.

    Francesca Catalano - Critica e curatrice d’arte

  • Nativo 3

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 70x100cm
    2021
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    La prima maschera

    L’uomo e la sua maschera, inscindibili e inseparabili, sono i protagonisti del nuovo ciclo pittorico dell’artista veneziano Sergio Boldrin.

    Quella proposta dall’artista è una riflessione pittorica di grande pathos che, come uno “schiaffo”, conduce ai primordi dell’essere, volgendosi ad analizzare la sua natura più intrinseca.

    La ricerca è volta a porre l’accento sull’uomo più che sulla maschera, lasciando a quest’ultima però l’importante compito di svelare le caratteristiche più recondite dell’uomo, portando alla luce la sua vera identità.

    Boldrin, pur attingendo dal suo bagaglio di conoscenze come maestro mascarer, per lui costante motivo di riflessione, come pittore è invece riuscito ad evadere da quello stuolo di maschere con cui si trova tutti i giorni a spartire le giornate, riuscendo ad indagare il significato di maschera al livello di quell’io più profondo con cui ogni essere umano fin dai tempi dei tempi si è confrontato.

    In questa selezione di opere pittoriche la maschera, infatti, non è intesa nei termini teatrali della commedia dell’arte o in quelli carnevaleschi, ma in modo intimo e spirituale, ed è vista soprattutto nella sua veste innata come volto primordiale: nel momento stesso in cui l’uomo nasce gli viene infatti donata una maschera e sarà questa ad accompagnarlo per il resto della vita.

    Proprio rifacendosi a questo concetto, Boldrin per realizzare le sue opere si è ispirato alle maschere africane. Già altri artisti in passato le avevano prese come punto di riferimento, in particolare vari esponenti di cubismo, fauvismo ed espressionismo nel periodo avanguardistico del XX secolo.

    La visione di Boldrin però è tutta nuova e, in un approccio concettuale ed artistico per nulla scontato, invita a voltarsi indietro fino ai primordi della fusione tra uomo e maschera che, eretti a simboli, connotano le caratteristiche di ciascun mortale. In particolare, per sottolineare la dualità di una componente psicologica, Boldrin si rifà alla “Maschera dello Zaire” di realizzazione anonima, conservata al Museo Reale dell’Africa centrale, a cui già Picasso, pur con intenti diversi tesi ad un’attenzione geometrica, si era ispirato per realizzare “Les Damoiselles D’Avignon”.

    Nelle opere ciascun essere alla cui nascita è affidata la prima maschera è rappresentato da Boldrin come una piccola figura bianca in forme embrionali ed evanescenti, simbolo di un’anima pura e autentica all’inizio di una nuova vita. Tale figura sorregge la grande maschera pronta per indossarla, con gestualità sempre diverse, dai caratteri leggiadri e svolazzanti, mai completamente definiti.

    Diversi sono infatti i “nativi” rappresentati, ognuno destinato ed essere differente dagli altri nei caratteri fisiognomici, psicologici, caratteriali e comportamentali.

    Vi sono maschere in cui prevale un atteggiamento demoniaco, percepibile dai pigmenti caldi del rosso scarlatto e sanguigno, che con occhi infuocati sottolineano un animo tormentato e tormentatore. Altre, dai toni più cupi, malinconici e misteriosi, richiamano segni di sofferenza, lotta e guerra. Ci sono alcune poi in cui prevale l’idea di un animo più sereno dedito alla riflessione e all’analisi, mentre altre hanno un’inclinazione più sognante e riportano in un mondo danzante e filosofico. E ancora, maschere con i colori della terra, che appaiono più goliardiche, richiamano situazioni pastorali e bucoliche.

    Sono opere caratterizzate da una forte componente figurativa che va sapientemente a mescolarsi con la parte più astratta, che richiama il sogno e l’immaginazione. Lo spazio a volte diviene quasi teatrale, mentre in altre lo sfondo diventa più astratto e connotato psicologicamente. Se in alcune opere la maschera compare in modo più geometrico e marcato, in altre questa si fonde con l’essere a tal punto da prendere tratti più umani, come se fosse una seconda pelle.

    Infine, l’ultima opera, su sfondo violaceo quasi nero, riprende la prima maschera del percorso che, ridipinta di bianco, appare però quasi come un fantasma.

    L’opera rappresenta la fine della vita, il momento fin dove l’uomo porterà la sua maschera e in cui entrambi si annulleranno.

    Una riflessione che viene narrata in opere connotate da istintività gestuale e sapiente calibro dei toni, tra contrasti che vanno a rimarcare sensazioni e stati d’animo, in colori intensi così come è la vita.

    Francesca Catalano - Critica e curatrice d’arte

  • Nativo 4

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 50x70cm
    2021
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    La prima maschera

    L’uomo e la sua maschera, inscindibili e inseparabili, sono i protagonisti del nuovo ciclo pittorico dell’artista veneziano Sergio Boldrin.

    Quella proposta dall’artista è una riflessione pittorica di grande pathos che, come uno “schiaffo”, conduce ai primordi dell’essere, volgendosi ad analizzare la sua natura più intrinseca.

    La ricerca è volta a porre l’accento sull’uomo più che sulla maschera, lasciando a quest’ultima però l’importante compito di svelare le caratteristiche più recondite dell’uomo, portando alla luce la sua vera identità.

    Boldrin, pur attingendo dal suo bagaglio di conoscenze come maestro mascarer, per lui costante motivo di riflessione, come pittore è invece riuscito ad evadere da quello stuolo di maschere con cui si trova tutti i giorni a spartire le giornate, riuscendo ad indagare il significato di maschera al livello di quell’io più profondo con cui ogni essere umano fin dai tempi dei tempi si è confrontato.

    In questa selezione di opere pittoriche la maschera, infatti, non è intesa nei termini teatrali della commedia dell’arte o in quelli carnevaleschi, ma in modo intimo e spirituale, ed è vista soprattutto nella sua veste innata come volto primordiale: nel momento stesso in cui l’uomo nasce gli viene infatti donata una maschera e sarà questa ad accompagnarlo per il resto della vita.

    Proprio rifacendosi a questo concetto, Boldrin per realizzare le sue opere si è ispirato alle maschere africane. Già altri artisti in passato le avevano prese come punto di riferimento, in particolare vari esponenti di cubismo, fauvismo ed espressionismo nel periodo avanguardistico del XX secolo.

    La visione di Boldrin però è tutta nuova e, in un approccio concettuale ed artistico per nulla scontato, invita a voltarsi indietro fino ai primordi della fusione tra uomo e maschera che, eretti a simboli, connotano le caratteristiche di ciascun mortale. In particolare, per sottolineare la dualità di una componente psicologica, Boldrin si rifà alla “Maschera dello Zaire” di realizzazione anonima, conservata al Museo Reale dell’Africa centrale, a cui già Picasso, pur con intenti diversi tesi ad un’attenzione geometrica, si era ispirato per realizzare “Les Damoiselles D’Avignon”.

    Nelle opere ciascun essere alla cui nascita è affidata la prima maschera è rappresentato da Boldrin come una piccola figura bianca in forme embrionali ed evanescenti, simbolo di un’anima pura e autentica all’inizio di una nuova vita. Tale figura sorregge la grande maschera pronta per indossarla, con gestualità sempre diverse, dai caratteri leggiadri e svolazzanti, mai completamente definiti.

    Diversi sono infatti i “nativi” rappresentati, ognuno destinato ed essere differente dagli altri nei caratteri fisiognomici, psicologici, caratteriali e comportamentali.

    Vi sono maschere in cui prevale un atteggiamento demoniaco, percepibile dai pigmenti caldi del rosso scarlatto e sanguigno, che con occhi infuocati sottolineano un animo tormentato e tormentatore. Altre, dai toni più cupi, malinconici e misteriosi, richiamano segni di sofferenza, lotta e guerra. Ci sono alcune poi in cui prevale l’idea di un animo più sereno dedito alla riflessione e all’analisi, mentre altre hanno un’inclinazione più sognante e riportano in un mondo danzante e filosofico. E ancora, maschere con i colori della terra, che appaiono più goliardiche, richiamano situazioni pastorali e bucoliche.

    Sono opere caratterizzate da una forte componente figurativa che va sapientemente a mescolarsi con la parte più astratta, che richiama il sogno e l’immaginazione. Lo spazio a volte diviene quasi teatrale, mentre in altre lo sfondo diventa più astratto e connotato psicologicamente. Se in alcune opere la maschera compare in modo più geometrico e marcato, in altre questa si fonde con l’essere a tal punto da prendere tratti più umani, come se fosse una seconda pelle.

    Infine, l’ultima opera, su sfondo violaceo quasi nero, riprende la prima maschera del percorso che, ridipinta di bianco, appare però quasi come un fantasma.

    L’opera rappresenta la fine della vita, il momento fin dove l’uomo porterà la sua maschera e in cui entrambi si annulleranno.

    Una riflessione che viene narrata in opere connotate da istintività gestuale e sapiente calibro dei toni, tra contrasti che vanno a rimarcare sensazioni e stati d’animo, in colori intensi così come è la vita.

    Francesca Catalano - Critica e curatrice d’arte

  • Nativo 6

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 80x120cm
    2022
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    La prima maschera

    L’uomo e la sua maschera, inscindibili e inseparabili, sono i protagonisti del nuovo ciclo pittorico dell’artista veneziano Sergio Boldrin.

    Quella proposta dall’artista è una riflessione pittorica di grande pathos che, come uno “schiaffo”, conduce ai primordi dell’essere, volgendosi ad analizzare la sua natura più intrinseca.

    La ricerca è volta a porre l’accento sull’uomo più che sulla maschera, lasciando a quest’ultima però l’importante compito di svelare le caratteristiche più recondite dell’uomo, portando alla luce la sua vera identità.

    Boldrin, pur attingendo dal suo bagaglio di conoscenze come maestro mascarer, per lui costante motivo di riflessione, come pittore è invece riuscito ad evadere da quello stuolo di maschere con cui si trova tutti i giorni a spartire le giornate, riuscendo ad indagare il significato di maschera al livello di quell’io più profondo con cui ogni essere umano fin dai tempi dei tempi si è confrontato.

    In questa selezione di opere pittoriche la maschera, infatti, non è intesa nei termini teatrali della commedia dell’arte o in quelli carnevaleschi, ma in modo intimo e spirituale, ed è vista soprattutto nella sua veste innata come volto primordiale: nel momento stesso in cui l’uomo nasce gli viene infatti donata una maschera e sarà questa ad accompagnarlo per il resto della vita.

    Proprio rifacendosi a questo concetto, Boldrin per realizzare le sue opere si è ispirato alle maschere africane. Già altri artisti in passato le avevano prese come punto di riferimento, in particolare vari esponenti di cubismo, fauvismo ed espressionismo nel periodo avanguardistico del XX secolo.

    La visione di Boldrin però è tutta nuova e, in un approccio concettuale ed artistico per nulla scontato, invita a voltarsi indietro fino ai primordi della fusione tra uomo e maschera che, eretti a simboli, connotano le caratteristiche di ciascun mortale. In particolare, per sottolineare la dualità di una componente psicologica, Boldrin si rifà alla “Maschera dello Zaire” di realizzazione anonima, conservata al Museo Reale dell’Africa centrale, a cui già Picasso, pur con intenti diversi tesi ad un’attenzione geometrica, si era ispirato per realizzare “Les Damoiselles D’Avignon”.

    Nelle opere ciascun essere alla cui nascita è affidata la prima maschera è rappresentato da Boldrin come una piccola figura bianca in forme embrionali ed evanescenti, simbolo di un’anima pura e autentica all’inizio di una nuova vita. Tale figura sorregge la grande maschera pronta per indossarla, con gestualità sempre diverse, dai caratteri leggiadri e svolazzanti, mai completamente definiti.

    Diversi sono infatti i “nativi” rappresentati, ognuno destinato ed essere differente dagli altri nei caratteri fisiognomici, psicologici, caratteriali e comportamentali.

    Vi sono maschere in cui prevale un atteggiamento demoniaco, percepibile dai pigmenti caldi del rosso scarlatto e sanguigno, che con occhi infuocati sottolineano un animo tormentato e tormentatore. Altre, dai toni più cupi, malinconici e misteriosi, richiamano segni di sofferenza, lotta e guerra. Ci sono alcune poi in cui prevale l’idea di un animo più sereno dedito alla riflessione e all’analisi, mentre altre hanno un’inclinazione più sognante e riportano in un mondo danzante e filosofico. E ancora, maschere con i colori della terra, che appaiono più goliardiche, richiamano situazioni pastorali e bucoliche.

    Sono opere caratterizzate da una forte componente figurativa che va sapientemente a mescolarsi con la parte più astratta, che richiama il sogno e l’immaginazione. Lo spazio a volte diviene quasi teatrale, mentre in altre lo sfondo diventa più astratto e connotato psicologicamente. Se in alcune opere la maschera compare in modo più geometrico e marcato, in altre questa si fonde con l’essere a tal punto da prendere tratti più umani, come se fosse una seconda pelle.

    Infine, l’ultima opera, su sfondo violaceo quasi nero, riprende la prima maschera del percorso che, ridipinta di bianco, appare però quasi come un fantasma.

    L’opera rappresenta la fine della vita, il momento fin dove l’uomo porterà la sua maschera e in cui entrambi si annulleranno.

    Una riflessione che viene narrata in opere connotate da istintività gestuale e sapiente calibro dei toni, tra contrasti che vanno a rimarcare sensazioni e stati d’animo, in colori intensi così come è la vita.

    Francesca Catalano - Critica e curatrice d’arte

  • Nativo 8

    Tecnica: Olio su tavola
    Dimensioni: 40x60cm
    2022
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    La prima maschera

    L’uomo e la sua maschera, inscindibili e inseparabili, sono i protagonisti del nuovo ciclo pittorico dell’artista veneziano Sergio Boldrin.

    Quella proposta dall’artista è una riflessione pittorica di grande pathos che, come uno “schiaffo”, conduce ai primordi dell’essere, volgendosi ad analizzare la sua natura più intrinseca.

    La ricerca è volta a porre l’accento sull’uomo più che sulla maschera, lasciando a quest’ultima però l’importante compito di svelare le caratteristiche più recondite dell’uomo, portando alla luce la sua vera identità.

    Boldrin, pur attingendo dal suo bagaglio di conoscenze come maestro mascarer, per lui costante motivo di riflessione, come pittore è invece riuscito ad evadere da quello stuolo di maschere con cui si trova tutti i giorni a spartire le giornate, riuscendo ad indagare il significato di maschera al livello di quell’io più profondo con cui ogni essere umano fin dai tempi dei tempi si è confrontato.

    In questa selezione di opere pittoriche la maschera, infatti, non è intesa nei termini teatrali della commedia dell’arte o in quelli carnevaleschi, ma in modo intimo e spirituale, ed è vista soprattutto nella sua veste innata come volto primordiale: nel momento stesso in cui l’uomo nasce gli viene infatti donata una maschera e sarà questa ad accompagnarlo per il resto della vita.

    Proprio rifacendosi a questo concetto, Boldrin per realizzare le sue opere si è ispirato alle maschere africane. Già altri artisti in passato le avevano prese come punto di riferimento, in particolare vari esponenti di cubismo, fauvismo ed espressionismo nel periodo avanguardistico del XX secolo.

    La visione di Boldrin però è tutta nuova e, in un approccio concettuale ed artistico per nulla scontato, invita a voltarsi indietro fino ai primordi della fusione tra uomo e maschera che, eretti a simboli, connotano le caratteristiche di ciascun mortale. In particolare, per sottolineare la dualità di una componente psicologica, Boldrin si rifà alla “Maschera dello Zaire” di realizzazione anonima, conservata al Museo Reale dell’Africa centrale, a cui già Picasso, pur con intenti diversi tesi ad un’attenzione geometrica, si era ispirato per realizzare “Les Damoiselles D’Avignon”.

    Nelle opere ciascun essere alla cui nascita è affidata la prima maschera è rappresentato da Boldrin come una piccola figura bianca in forme embrionali ed evanescenti, simbolo di un’anima pura e autentica all’inizio di una nuova vita. Tale figura sorregge la grande maschera pronta per indossarla, con gestualità sempre diverse, dai caratteri leggiadri e svolazzanti, mai completamente definiti.

    Diversi sono infatti i “nativi” rappresentati, ognuno destinato ed essere differente dagli altri nei caratteri fisiognomici, psicologici, caratteriali e comportamentali.

    Vi sono maschere in cui prevale un atteggiamento demoniaco, percepibile dai pigmenti caldi del rosso scarlatto e sanguigno, che con occhi infuocati sottolineano un animo tormentato e tormentatore. Altre, dai toni più cupi, malinconici e misteriosi, richiamano segni di sofferenza, lotta e guerra. Ci sono alcune poi in cui prevale l’idea di un animo più sereno dedito alla riflessione e all’analisi, mentre altre hanno un’inclinazione più sognante e riportano in un mondo danzante e filosofico. E ancora, maschere con i colori della terra, che appaiono più goliardiche, richiamano situazioni pastorali e bucoliche.

    Sono opere caratterizzate da una forte componente figurativa che va sapientemente a mescolarsi con la parte più astratta, che richiama il sogno e l’immaginazione. Lo spazio a volte diviene quasi teatrale, mentre in altre lo sfondo diventa più astratto e connotato psicologicamente. Se in alcune opere la maschera compare in modo più geometrico e marcato, in altre questa si fonde con l’essere a tal punto da prendere tratti più umani, come se fosse una seconda pelle.

    Infine, l’ultima opera, su sfondo violaceo quasi nero, riprende la prima maschera del percorso che, ridipinta di bianco, appare però quasi come un fantasma.

    L’opera rappresenta la fine della vita, il momento fin dove l’uomo porterà la sua maschera e in cui entrambi si annulleranno.

    Una riflessione che viene narrata in opere connotate da istintività gestuale e sapiente calibro dei toni, tra contrasti che vanno a rimarcare sensazioni e stati d’animo, in colori intensi così come è la vita.

    Francesca Catalano - Critica e curatrice d’arte

  • I nativi

    Tecnica: Olio su tela
    Dimensioni: 60x70cm
    2021
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    La prima maschera

    L’uomo e la sua maschera, inscindibili e inseparabili, sono i protagonisti del nuovo ciclo pittorico dell’artista veneziano Sergio Boldrin.

    Quella proposta dall’artista è una riflessione pittorica di grande pathos che, come uno “schiaffo”, conduce ai primordi dell’essere, volgendosi ad analizzare la sua natura più intrinseca.

    La ricerca è volta a porre l’accento sull’uomo più che sulla maschera, lasciando a quest’ultima però l’importante compito di svelare le caratteristiche più recondite dell’uomo, portando alla luce la sua vera identità.

    Boldrin, pur attingendo dal suo bagaglio di conoscenze come maestro mascarer, per lui costante motivo di riflessione, come pittore è invece riuscito ad evadere da quello stuolo di maschere con cui si trova tutti i giorni a spartire le giornate, riuscendo ad indagare il significato di maschera al livello di quell’io più profondo con cui ogni essere umano fin dai tempi dei tempi si è confrontato.

    In questa selezione di opere pittoriche la maschera, infatti, non è intesa nei termini teatrali della commedia dell’arte o in quelli carnevaleschi, ma in modo intimo e spirituale, ed è vista soprattutto nella sua veste innata come volto primordiale: nel momento stesso in cui l’uomo nasce gli viene infatti donata una maschera e sarà questa ad accompagnarlo per il resto della vita.

    Proprio rifacendosi a questo concetto, Boldrin per realizzare le sue opere si è ispirato alle maschere africane. Già altri artisti in passato le avevano prese come punto di riferimento, in particolare vari esponenti di cubismo, fauvismo ed espressionismo nel periodo avanguardistico del XX secolo.

    La visione di Boldrin però è tutta nuova e, in un approccio concettuale ed artistico per nulla scontato, invita a voltarsi indietro fino ai primordi della fusione tra uomo e maschera che, eretti a simboli, connotano le caratteristiche di ciascun mortale. In particolare, per sottolineare la dualità di una componente psicologica, Boldrin si rifà alla “Maschera dello Zaire” di realizzazione anonima, conservata al Museo Reale dell’Africa centrale, a cui già Picasso, pur con intenti diversi tesi ad un’attenzione geometrica, si era ispirato per realizzare “Les Damoiselles D’Avignon”.

    Nelle opere ciascun essere alla cui nascita è affidata la prima maschera è rappresentato da Boldrin come una piccola figura bianca in forme embrionali ed evanescenti, simbolo di un’anima pura e autentica all’inizio di una nuova vita. Tale figura sorregge la grande maschera pronta per indossarla, con gestualità sempre diverse, dai caratteri leggiadri e svolazzanti, mai completamente definiti.

    Diversi sono infatti i “nativi” rappresentati, ognuno destinato ed essere differente dagli altri nei caratteri fisiognomici, psicologici, caratteriali e comportamentali.

    Vi sono maschere in cui prevale un atteggiamento demoniaco, percepibile dai pigmenti caldi del rosso scarlatto e sanguigno, che con occhi infuocati sottolineano un animo tormentato e tormentatore. Altre, dai toni più cupi, malinconici e misteriosi, richiamano segni di sofferenza, lotta e guerra. Ci sono alcune poi in cui prevale l’idea di un animo più sereno dedito alla riflessione e all’analisi, mentre altre hanno un’inclinazione più sognante e riportano in un mondo danzante e filosofico. E ancora, maschere con i colori della terra, che appaiono più goliardiche, richiamano situazioni pastorali e bucoliche.

    Sono opere caratterizzate da una forte componente figurativa che va sapientemente a mescolarsi con la parte più astratta, che richiama il sogno e l’immaginazione. Lo spazio a volte diviene quasi teatrale, mentre in altre lo sfondo diventa più astratto e connotato psicologicamente. Se in alcune opere la maschera compare in modo più geometrico e marcato, in altre questa si fonde con l’essere a tal punto da prendere tratti più umani, come se fosse una seconda pelle.

    Infine, l’ultima opera, su sfondo violaceo quasi nero, riprende la prima maschera del percorso che, ridipinta di bianco, appare però quasi come un fantasma.

    L’opera rappresenta la fine della vita, il momento fin dove l’uomo porterà la sua maschera e in cui entrambi si annulleranno.

    Una riflessione che viene narrata in opere connotate da istintività gestuale e sapiente calibro dei toni, tra contrasti che vanno a rimarcare sensazioni e stati d’animo, in colori intensi così come è la vita.

    Francesca Catalano - Critica e curatrice d’arte

  • Ultima maschera

    Tecnica: Olio su tavola
    Dimensioni: 15x18cm
    2021
    Cenni critici

    Sergio Boldrin
    La prima maschera

    L’uomo e la sua maschera, inscindibili e inseparabili, sono i protagonisti del nuovo ciclo pittorico dell’artista veneziano Sergio Boldrin.

    Quella proposta dall’artista è una riflessione pittorica di grande pathos che, come uno “schiaffo”, conduce ai primordi dell’essere, volgendosi ad analizzare la sua natura più intrinseca.

    La ricerca è volta a porre l’accento sull’uomo più che sulla maschera, lasciando a quest’ultima però l’importante compito di svelare le caratteristiche più recondite dell’uomo, portando alla luce la sua vera identità.

    Boldrin, pur attingendo dal suo bagaglio di conoscenze come maestro mascarer, per lui costante motivo di riflessione, come pittore è invece riuscito ad evadere da quello stuolo di maschere con cui si trova tutti i giorni a spartire le giornate, riuscendo ad indagare il significato di maschera al livello di quell’io più profondo con cui ogni essere umano fin dai tempi dei tempi si è confrontato.

    In questa selezione di opere pittoriche la maschera, infatti, non è intesa nei termini teatrali della commedia dell’arte o in quelli carnevaleschi, ma in modo intimo e spirituale, ed è vista soprattutto nella sua veste innata come volto primordiale: nel momento stesso in cui l’uomo nasce gli viene infatti donata una maschera e sarà questa ad accompagnarlo per il resto della vita.

    Proprio rifacendosi a questo concetto, Boldrin per realizzare le sue opere si è ispirato alle maschere africane. Già altri artisti in passato le avevano prese come punto di riferimento, in particolare vari esponenti di cubismo, fauvismo ed espressionismo nel periodo avanguardistico del XX secolo.

    La visione di Boldrin però è tutta nuova e, in un approccio concettuale ed artistico per nulla scontato, invita a voltarsi indietro fino ai primordi della fusione tra uomo e maschera che, eretti a simboli, connotano le caratteristiche di ciascun mortale. In particolare, per sottolineare la dualità di una componente psicologica, Boldrin si rifà alla “Maschera dello Zaire” di realizzazione anonima, conservata al Museo Reale dell’Africa centrale, a cui già Picasso, pur con intenti diversi tesi ad un’attenzione geometrica, si era ispirato per realizzare “Les Damoiselles D’Avignon”.

    Nelle opere ciascun essere alla cui nascita è affidata la prima maschera è rappresentato da Boldrin come una piccola figura bianca in forme embrionali ed evanescenti, simbolo di un’anima pura e autentica all’inizio di una nuova vita. Tale figura sorregge la grande maschera pronta per indossarla, con gestualità sempre diverse, dai caratteri leggiadri e svolazzanti, mai completamente definiti.

    Diversi sono infatti i “nativi” rappresentati, ognuno destinato ed essere differente dagli altri nei caratteri fisiognomici, psicologici, caratteriali e comportamentali.

    Vi sono maschere in cui prevale un atteggiamento demoniaco, percepibile dai pigmenti caldi del rosso scarlatto e sanguigno, che con occhi infuocati sottolineano un animo tormentato e tormentatore. Altre, dai toni più cupi, malinconici e misteriosi, richiamano segni di sofferenza, lotta e guerra. Ci sono alcune poi in cui prevale l’idea di un animo più sereno dedito alla riflessione e all’analisi, mentre altre hanno un’inclinazione più sognante e riportano in un mondo danzante e filosofico. E ancora, maschere con i colori della terra, che appaiono più goliardiche, richiamano situazioni pastorali e bucoliche.

    Sono opere caratterizzate da una forte componente figurativa che va sapientemente a mescolarsi con la parte più astratta, che richiama il sogno e l’immaginazione. Lo spazio a volte diviene quasi teatrale, mentre in altre lo sfondo diventa più astratto e connotato psicologicamente. Se in alcune opere la maschera compare in modo più geometrico e marcato, in altre questa si fonde con l’essere a tal punto da prendere tratti più umani, come se fosse una seconda pelle.

    Infine, l’ultima opera, su sfondo violaceo quasi nero, riprende la prima maschera del percorso che, ridipinta di bianco, appare però quasi come un fantasma.

    L’opera rappresenta la fine della vita, il momento fin dove l’uomo porterà la sua maschera e in cui entrambi si annulleranno.

    Una riflessione che viene narrata in opere connotate da istintività gestuale e sapiente calibro dei toni, tra contrasti che vanno a rimarcare sensazioni e stati d’animo, in colori intensi così come è la vita.

    Francesca Catalano - Critica e curatrice d’arte

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